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1Sam. 16:7 Ma il SIGNORE disse a Samuele: «Non badare al suo aspetto né alla sua statura, perché io l’ho scartato; infatti il SIGNORE non bada a ciò che colpisce lo sguardo dell’uomo: l’uomo guarda all’apparenza, ma il SIGNORE guarda al cuore».
A chi non piacerebbe fare una bella impressione ad un colloquio di lavoro, in una riunione tra amici, in occasione di nuove conoscenze, in un incontro con una persona che ci interessa sentimentalmente. Apparire nella maniera giusta è diventato un imperativo nella nostra civiltà dell’immagine, e questa ‘impressione’ sugli altri è diventata sinonimo di accettazione e di successo sociale. Il problema non è tanto nell’apparire che, anzi, entro certi termini costituisce un aspetto positivo: il fatto di mostrare agli altri solo parte di noi (e generalmente la parte migliore di noi) costituisce un meccanismo di difesa psicologico che ci consente di mantenere la nostra indispensabile intimità, di porre un necessario confine tra noi e gli altri. Il problema risiede piuttosto nell’abuso dell’utilizzo di ‘maschere’ sociali e personali cui spesso non corrisponde una ‘sostanza’: il contenitore diventa così più importante del contenuto. Non così per Dio. Se naturalmente lo sguardo dell’uomo si posa sulla superficie, il Signore invece va in profondità e ‘guarda al cuore’. Nel verso in esame c’è la contrapposizione enayim/lebab (ebraico per ‘apparenza/cuore’) per indicare due mondi diversi che talvolta possono essere inconciliabili in quanto si vive una contraddizione che mira a comunicare un falso messaggio. Il mondo ebraico, oltre a queste espressioni, possiede due termini precisi per indicare questa dicotomia interiore: nephesh, talora impropriamente tradotto ‘anima’, indica ciò che siamo nel nostro intimo, la nostra vera personalità, mentre shem, più comunemente tradotto ‘nome’, indica ciò che noi mostriamo agli altri di noi stessi, l’impressione che diamo di noi. Noi e la nostra maschera, la persona che siamo e il personaggio che interpretiamo, il nostro intimo e la nostra reputazione.
Nel Nuovo Testamento abbiamo termini greci paralleli per indicare la contrapposizione apparenza/sostanza, e precisamente schÄ“ma (1 Cor. 7:31), che indica l’aspetto esteriore delle cose, e fúsis (Gal 4:8), che invece ne indica la natura interiore. La cosa interessante è che in greco esiste un altro termine, morphÄ“, che indica un aspetto esteriore che corrisponde a quello interiore, ed è proprio questo termine che viene utilizzato per descrivere Gesù che venne ‘in forma’ (morphÄ“) di Dio (Fil. 2:6) e ‘in forma’ (morphÄ“) di servo (Fil. 2:7): vero Dio e contemporaneamente autentico servo. Quale meravigliosa coerenza dove aspetto esteriore e sentimenti, parole e azioni si incontrano: si può dire lo stesso di noi? Ciò che professiamo mediante la nostra appartenenza ad una fede e ad una chiesa corrisponde esattamente a ciò che siamo nell’intimo?
La nostra vera identità non corrisponde semplicemente a quello che vorremmo essere o che crediamo (le nostre buone intenzioni), ma anche a quello che facciamo e che proviamo (l’espressione dei nostri valori): ‘Non chiunque mi dice: Signore, Signore! entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli’ (Mt. 7:21).
Ma questa non è una meditazione che invita alla perfezione assoluta, che pensa di poter giudicare e condannare senza appello chi si ferma alle apparenze, che si propone di spingere ad un attivismo esasperato i credenti perché possano mostrare che c’è una ‘sostanza’. No. Il mio scopo è molto semplicemente invitare a riflettere sulle ragioni ultime delle nostre molte inconsistenze, il mio è un invito a fermarci per ripensare ai nostri atteggiamenti. Dovremmo diffidare dall’identificarci nell’intima convinzione di qualcuno che pregava: ‘O Dio, ti ringrazio che io non sono come gli altri uomini…’ (Lc. 18:11). Il primo passo è riconoscere tutti insieme che ognuno di noi vive le proprie contraddizioni, le proprie fragilità, e se siamo sinceri fino in fondo non faremo difficoltà a ravvisare che anche noi, spesso, ci fermiamo alle apparenze: è Dio che dice che ‘l’uomo (quindi anche me e te) guarda all’apparenza’ ( 1 Sam. 16:7), e io non me la sento di smentirlo a cuor leggero! Anche noi viviamo le nostre tante contraddizioni interiori, emettiamo facili giudizi che si fermano alla superficie visibile dei fatti, ci ritroviamo condizionati dalle impressioni esteriori. Da questa confessione si parte per chiedere aiuto a Dio, per trovare un perdono rinnovatore alla croce di Cristo, per ricercare umilmente la presenza dello Spirito che solo ci può trasformare, che solo può illuminare i nostri occhi affinché vediamo al di là delle apparenze, che solo ci può motivare con un amore vero che ci mette in condizione di pregare per le inconsistenze nostre e quelle degli altri liberandoci da un triste spirito legalista. Se ci accontentiamo delle apparenze ci accontenteremo di un surrogato della vera felicità e della vera libertà alle quali Dio ci ha chiamato come essere umani e come Suoi figli. Questo è un invito ad ‘essere’, non ad apparire né a fare. Gli uomini scelsero Saul, Dio scelse Davide... ed ha scelto anche noi nonostante le nostre numerose incongruenze.